testo integrale con note e bibliografia

1. I diversi contenuti della legge
All’ indomani della approvazione della legge sulla partecipazione dei lavoratori nell’impresa, questa normativa, sollecitata dal progetto di iniziativa popolare promosso dalla Cisl, continua ad attirare grande attenzione da studiosi e operatori.
Anche chi era scettico sulle probabilità che la iniziativa arrivasse in porto se ne sta occupando con interesse .
L’interesse è comprensibile, se non altro perché questo successo arriva dopo decenni di inutili tentativi di arrivare a una normativa in materia.
Ritorno in argomento, sollecitato dalla decisione di questa Rivista di dedicare un gruppo di saggi che affrontano i contenuti della normativa da diversi punti di vista.
Gli scritti procedono da una riflessione sul dibattito costituzionale riguardante l’art. 46, (Andrea Michieli), ripercorrono i ripetuti (e inutili) tentativi di dare seguito legislativo alla partecipazione e in parallelo le esperienze innovative attivate dalla nostra contrattazione collettiva (Raffaello Santagata), presentano un confronto comparato con le normative di Germania e Svezia (M. Corti), analizzano i principali incentivi del nostro legislatore alla partecipazione (Nicolò Rossi), riflettono sugli attori della partecipazione (S. Ales), discutono le implicazioni di diritto commerciale della partecipazione gestionale e i rapporti della legge italiana con l’ employee involvement di matrice europea (A. Alaimo).
Questo complesso di contributi fornisce informazioni utili a dare un quadro in cui collocare il tema, anche al di là del testo legislativo appena approvato; serve a sottolineare la particolarità, meglio la anomalia della esperienza italiana rispetto al modello sociale europeo di cui la partecipazione è parte costitutiva.
Gli scritti segnalano la presenza in Italia di forme partecipative contrattuali, sia pure isolate, ispirate alle migliori pratiche europee che potrebbero servire da modello per il futuro.
Queste esperienze possono indicare anche il benchmark su cui misurare l’efficacia promozionale della nuova legge.

2. I motivi della mancanza di una legislazione italiana e del successo della proposta CISL
Il presente contributo riprende considerazioni già svolte sul tema, aggiornandole anche alla luce degli scritti qui pubblicati.
Comincio da una questione preliminare, riguardante i motivi dei ritardi storici e in connessione le ragioni del successo della proposta Cisl.
Riflettere sui motivi del ritardo serve a valutare bene il presente, per vedere se e come tali motivi siano stati superati.
Una ragione fondamentale, spesso ricordata, va ricondotta agli orientamenti storici della gran parte del mondo sindacale, (con l’eccezione della Cisl), che sono stati fortemente conflittuali se non antagonistici e quindi contrari a dare seguito alle indicazioni dell’ art.46 Cost.
Tanto più che il testo costituzionale è risultato nient’affatto univoco. Esso contiene una previsione “volutamente e forzatamente aperta” che riflette la diversità delle concezioni dei principali gruppi rappresentati alla Costituente circa gli obiettivi e le modalità della partecipazione, anzi a monte circa i rapporti fra capitale e lavoro.
Per questo la formula lascia al legislatore ampia discrezionalità di intervenire sulle forme di partecipazione sia sulle fonti di regolazione.
Al riguardo non si può negare che la contrattazione collettiva sia una fonte legittimata a promuovere e regolare la partecipazione nelle sua varie forme.
Deve infatti escludersi che l’art. 46 possa intendersi come implicante una riserva di legge assoluta, che sarebbe difficilmente conciliabile con il rilievo attribuito al principio di libertà sindacale e alla autonomia collettiva nel nostro ordinamento .
Nel tempo le divisioni fra le maggiori confederazioni circa la opportunità e le modalità della partecipazione non si sono superate, salvo le dichiarazioni recenti del patto della fabbrica ( 2018) di apertura sul tema anche da parte della CGIL.
Tali aperture, oltre a essere limitate quanto ai possibili contenuti della partecipazione, si sono rivelate subito precarie e comunque insufficienti a eliminare le resistenze di quel sindacato.
Lo si è visto durante l’iter di approvazione della legge, nel quale la Cgil ha preso le distanze dal testo (anche) in polemica nei confronti della iniziativa unilaterale della Cisl.
Negli anni successivi, a fronte della impossibilità di adottare forme partecipative concordate fra le parti sindacali, e di vincere la opposizione della Confindustria, le relazioni industriali italiane si sono concentrate nella pratica della contrattazione collettiva, più o meno conflittuale a seconda dei tempi.
L’ aver praticato per decenni la contrattazione come unica forma di azione collettiva non è stato senza conseguenze. Ad esempio ha disincentivato, se non escluso, le pratiche di gestione bilaterale dei rapporti di lavoro nelle aziende; ha ridotto la capacità delle parti di amministrare il contratto nel tempo e di comporre consensualmente le controversie e ha ritardato lo sviluppo di forme specializzate di rappresentanza dei lavoratori in azienda, se non di doppio canale: tutti elementi che in altri Paesi europei hanno favorito le pratiche partecipative.
Non a caso le obiezioni della Cgil alla proposta Cisl nel corso del dibattito parlamentare hanno espresso il timore che il sostegno alla partecipazione potesse oscurare o ostacolare l’attività contrattuale collettiva.
Questi due ostacoli, uno ideologico e uno istituzionale, hanno dunque contribuito a impedire nel nostro Paese la affermazione di forme partecipative diffuse.
Fra i fattori che hanno attenuato il peso di tali ostacoli si possono annoverare, come sottolineano i presentatori della proposta , le grandi trasformazioni economiche sociali in corso, a cominciare dalle due transizioni digitale e ecologica, con le sfide che rivolgono alle istituzioni e alle parti sociali, anzi a tutti gli stakeholders.
Così pure può aver influito sul lancio della proposta Cisl un revival delle esperienze partecipative , soprattutto in imprese avanzate e ad alta intensità di investimenti tecnologici, ove sono presenti più che altrove condizioni oggettive e soggettive favorevoli alla partecipazione .
Senza dire che le trasformazioni sociali, a cominciare dalle aspettative dei lavoratori specie dei giovani verso il lavoro e la crisi demografica hanno aumentato la concorrenza nel mercato del lavoro e stimolato le imprese a nuove politiche di attraction e retention nei confronti dell’ offerta di lavoro.
Proprio la consapevolezza di queste novità ha indotto le maggiori confederazioni sindacali a una inedita apertura nei confronti della partecipazione dei lavoratori, sancita da ultimo nel cd. Patto della fabbrica del 2018, sia pure con riguardo (solo) alla partecipazione organizzativa.
Ma sono convinto che questi motivi non sarebbero. stati sufficienti se non fossero stati accompagnati da un cambio di orientamento della proposta della Cisl rispetto a tutte le iniziative precedenti.

3. Dalla hard law europea alla soft law italiana
Mentre tali iniziative, sia italiane sia europee, sono state basate su una regolazione legislativa più o meno definita, la Cisl ha preso atto della impraticabilità in Italia di questa strada e ha deciso di seguire una via volontaristica, cioè di scegliere la contrattazione collettiva come fonte della regolazione della materia.
Si potrebbe dire che ha ritenuto di passare dalla hard law, normalmente usata in questa materia, a una forma di soft law.
In realtà il parallelo è improprio, per il diverso ambito in cui quest’ ultima opera, che mira a coordinare in modo aperto le iniziative degli Stati in vista di obiettivi comunitari.
Il punto in comune col caso nostro è che il ricorso alla soft law serve come strumento utilizzato dagli organismi dell’Unione europea per superare impasse regolative, frequenti nella esperienza comunitaria: cioè la stessa impasse riscontrata in Italia in materia di partecipazione.
La soft law non vincola i destinatari lasciando ampia discrezionalità ai destinatari, nella Unione Europea gli Stati, nel seguire le indicazioni del legislatore; e lo stesso carattere si riscontra nella legge in esame.
La conseguenza è che come nella soft law comunitaria, il giudizio sull’ efficacia regolativa dello strumento non può che essere dato a posteriori. Dipenderà della volontà /disponibilità dei destinatari, qui le parti sociali, di dare seguito alle indicazioni non vincolanti del legislatore nelle modalità che ritengono più adeguate nelle variabili condizioni del loro contesto .
La impostazione della Cisl, di carattere volontaristico, è coerente con il suo tradizionale orientamento di privilegiare il metodo contrattuale; ed è stata determinante per superare la storica opposizione delle organizzazioni degli imprenditori ai precedenti tentativi di interventi legislativi in materia di partecipazione.
La mancanza di elementi vincolanti risulta dal fatto che la formula ricorrente nel testo afferma la “possibilità” della contrattazione di intervenire nelle questioni della partecipazione. Non si prevede neppure un obbligo di negoziare su tali materie, che in altri paesi viene utilizzato per promuovere le pratiche contrattuali, ma che da noi ha sempre trovato opposizione.

4. Le modifiche introdotte dal parlamento e il contrattualismo “puro”
A rafforzare l’indirizzo di “contrattualismo” puro adottato dalla legge è significativo che nel corso dell’iter parlamentare sono state abolite le poche norme precettive presenti nell’ proposta della Cisl.
In particolare è stata soppressa la norma del testo originario che prevedeva l’obbligo di integrare con rappresentanti dei lavoratori gli organi di governo delle imprese a partecipazione pubblica, nelle due versioni, consiglio di sorveglianza in quelle che adottano il sistema dualistico, e consiglio di amministrazione nelle società che prevedono solo questo organismo.
La formula utilizzata dall’art. 3 “gli statuti possono prevedere, qualora disciplinata dai contratti collettivi, la partecipazione di rappresentanti dei lavoratori a tali organi”, è ambigua. Una interpretazione letterale potrebbe indurre a ritenere che la regolazione di contratti collettivi sia una condizione preclusiva della adozione di questa forma partecipativa da parte delle imprese. Ma una simile conclusione è difficilmente sostenibile, perché contrasterebbe con la intera impostazione della legge che è volontaristica e non prevede limiti al potere datoriale.
A voler dare un significato all’ inciso della norma, essa potrebbe configurare quello che Edoardo Ales definisce un rinvio regolatorio, cioè che riconosce (meglio, conferma) alla contrattazione il compito di definire le modalità della partecipazione.
In ogni caso il venir meno di ogni indicazione vincolante sul punto, che nella versione originaria dava un sostegno significativo alla partecipazione gestionale dei lavoratori, riflette le resistenze ad accettare tali forme partecipative dalle imprese interessate: resistenze evidentemente recepite dal governo .
In realtà i cambiamenti intervenuti nel dibattito parlamentare rispetto alla proposta delle Cisl segnalati anche negli scritti qui presentati non si limitano a questo aspetto .
Mentre nella prima versione Cisl la contrattazione collettiva era considerata come fonte “raccomandata” di regolazione di tutte le forme partecipative, il testo finale elimina tale riferimento alla fonte contrattuale per altre forme: di piani di partecipazione finanziaria, nella duplice forma della distribuzione agli utili e dei piani di azionariato per i dipendenti, e la istituzione (non la regolamentazione) di commissioni paritetiche per la partecipazione organizzativa.
In realtà nel caso della partecipazione finanziaria di cui all’art. 6, i contratti collettivi, ancorché non menzionati, sono indispensabili, dato che l’incentivo economico è collegato alla attribuzione di azioni in sostituzione di premi di risultati, i quali sono legati alla contrattazione collettiva .
Per quanto riguarda la norma secondo cui le rappresentanze dei lavoratori possono essere preventivamente consultate in merito alle scelte aziendali (art.9), nell’ambito delle commissioni paritetiche, va sottolineato il richiamo della stessa norma che fa salvo quanto stabilito dalla legge o dai contratti collettivi di cui al decreto 25/2007 (art. 2, comma 1, lett. g).
Tale richiamo è importante per evitare che la consultazione preventiva cui si riferisce il testo approvato sia intesa come una mera facoltà delle imprese e non come un obbligo. Inoltre è da notare che la norma rinvia alla contrattazione collettiva per la regolazione di diversi aspetti della contrattazione, con la composizione della Commissione, i tempi, modalità e contenuti della stessa.
Se appare chiaro che la eliminazione di vincoli relativi alla partecipazione è stata decisa dal governo per superare l’opposizione degli imprenditori che avrebbe potuto ostacolare, come in passato, la approvazione della legge, sono meno evidenti le ragioni per le quali le modifiche “riduttive” riguardano in misura diversa i vari istituti partecipativi.
In ogni caso il significato riduttivo delle modifiche introdotte dal parlamento è sottolineato negli scritti qui presentati, che rilevano come tali modifiche, unite alla cancellazione dei flebili dispositivi obbligatori di partecipazione, abbiano avuto l’ effetto di “affievolire notevolmente il carattere promozionale del provvedimento, espresso ora solo dagli incentivi fiscali, peraltro ridotti“ e dal valore reputazionale del sistema di certificazione .
In effetti siamo lontani dalla legislazione di sostegno conosciuta (non solo) alla esperienza italiana, che ha promosso l’azione sindacale facendo leva sulla sanzione di diritti individuali e collettivi dentro e fuori dei luoghi di lavoro e su incentivi di vario genere alle attività delle organizzazioni e dei rappresentanti dei lavoratori.
Ritengo che nella scelta della legge in esame si possa parlare piuttosto di un generico endorsement della contrattazione collettiva come fonte “raccomandata“ di regolazione delle possibili forme partecipative.
Adottando la impostazione volontaristica proposta dalla Cisl il legislatore mostra di condividere la scommessa della Cisl che la sua “spinta gentile” possa sostenere le potenzialità della contrattazione di affermare il metodo partecipativo oltre l’ ambito delle grandi aziende innovative in cui si è finora attuata.
A dire il vero la scommessa sulla capacità regolativa del contratto collettivo, raccomandati dal legislatore, è estremizzata, quasi assoluta, per di più su temi di difficile implementazione e su cui finora è mancato un sufficiente consenso politico e (forse) sociale.
Una scelta così “estrema“ è senza riscontro nelle esperienze in tema di partecipazione presenti in Europa, compresi gli istituti partecipativi svedesi, ricordati da Matteo Corti, che hanno puntato molto sulla contrattazione collettiva, ma che comunque sono sostenuti da provvedimenti legislativi volti a regolare la contrattazione e la partecipazione esterna.

5. Una scommessa sul futuro della contrattazione?
La riduzione dei riferimenti ai contratti collettivi come fonte della partecipazione è stato uno dei punti criticati dai partiti di opposizione nel dibattito parlamentare, con il motivo che esso riaprirebbe spazi al potere unilaterale delle imprese di decidere su questi temi.
In realtà dal punto di vista giuridico tale riduzione non ha alcuna rilevanza, perché, giusta l’ impianto volontaristico della legge, sia che la legge faccia riferimento ai contratti collettivi sia che questo riferimento manchi, niente cambia circa il potere del datore di regolare unilateralmente la materia, che resta comunque intatto.
Ma come aver indicato la contrattazione quale fonte raccomandata di regolazione delle forme partecipative ha un valore politico - promozionale, o almeno pedagogico (come la definisce Matteo Corti), così avere eliminato alcuni di questi riferimenti alla contrattazione contribuisce a ridurre ulteriormente tale valore.
Da ultimo merita un commento lo scritto di E. Ales riguardante gli attori del sistema partecipativo previsto dalla legge, ove l’A. sottolinea come il carattere sindacale o meno di tali attori non sia sempre predeterminato.
Un simile agnosticismo normativo non è estraneo alla nostra tradizione, perché il legislatore italiano ha evitato di intervenire nel regolare il fenomeno sindacale e le modalità delle sue organizzazioni.
Tuttavia trattandosi qui di una normativa incentrata sul ruolo della contrattazione collettiva, che è la forma specifica della azione del sindacato in Italia sempre caratterizza dal canale unico sindacale di rappresentanza, ci si poteva aspettare che la legge specificasse il carattere sindacale, se non le modalità organizzative, degli attori del sistema partecipativo.
Come che sia, data l’assenza di indicazioni normative spetterà alla contrattazione collettiva di individuare il carattere degli attori, scegliendo fra le varie possibilità cui fa cenno Ales, cioè privilegiando la loro dimensione sindacale come da tradizione ovvero indicando canali doppi o plurimi.
Mi limito a queste considerazioni sull’ impianto e sul senso generale della legge rinviando per i contenuti specifici agli altri interventi del presente dibattito, oltre ai miei scritti precedenti.
Ma aggiungo alcune considerazioni conclusive, che tengono conto di tali interventi e dell’ ampio dibattito già in corso sul testo della legge.
Rilevavo sopra che con l’impostazione “volontaristica pura” del testo il legislatore
fa una scommessa sulla capacità della contrattazione collettiva, solo sollecitata da “una spinta gentile“, di affermare il metodo e le forme partecipative nel nostro sistema di relazioni industriali.

Non è il caso di riprendere qui il decennale dibattito sulla democrazia industriale e sul bilancio delle varie forme partecipative sperimentate in Europa. Ma i suoi esiti inconcludenti confermano la incapacità, o la non volontà, delle forze sociali e politiche di seguire le soluzioni prevalenti in Europa, anche formalmente adottate da noi. Non si dimentichi che la normativa sulla Società Europea è stata recepita in Italia col d.lgs.19 marzo 2005, n.188, peraltro subito oscurato.
Di questa storia le vicende e i motivi che hanno portato a questa via italiana contrattuale alla partecipazione costituiscono una indiretta conferma.

6. Diverse condizioni di realizzabilità
In ogni caso una valutazione circa l’esito della scommessa non potrà che essere fatta sulla base della evoluzione del nostro sistema di relazioni industriali, cioè delle dinamiche generali della contrattazione e /o dei diversi settori, perché tali dinamiche possono favorire esiti diversi fra loro.
Non mi sembrano rilevanti le preoccupazioni manifestate anche nel corso dell’iter parlamentare circa il rischio di sovrapposizione o di collisione fra partecipazione e contrattazione collettiva.
Saranno invece importanti sia le condizioni di contesto, oggettive e soggettive indicate all’inizio sia la evoluzione del quadro istituzionale europeo e nazionale.
In generale si può ritenere che la varietà delle opzioni partecipative si presta a diverse possibilità di realizzazione, che dipendono dalle caratteristiche delle singole opzioni e dal loro grado di accettabilità da parte degli attori contrattuali.
Si può ritenere che le forme di partecipazione consultiva e organizzativa si prestano più delle altre a essere accolte favorevolmente dagli attori delle relazioni industriali italiane. Le ricerche in argomento segnalano che tali forme sono quelle più praticate nelle aziende italiane e sono valutate positivamente da entrambe le parti .
Le esperienze italiane ed europee mostrano le potenzialità di queste forme partecipative, non solo per promuovere il coinvolgimento dei lavoratori nelle vicende aziendali, ma anche per migliorare il clima e al produttività aziendale.
Ma nel contempo avvertono che tali potenzialità dipendono non solo o non tanto dal riconoscimento legislativo o contrattuale dell’istituto, quanto dagli orientamenti delle parti e dalla gestione delle forme partecipative nel contesto delle relazioni industriali.

Un fattore relativo alle vicende delle nostre relazioni industriali, che può incidere anche sulla applicazione di questa legge, riguarda le divisioni aggravatesi di recente fra le maggiori confederazioni sindacali, in particolare fra Cisl, Cgil e Uil, e in particolare la contrarietà di queste ultime confederazioni nei confronti della legge emersa durante il dibattito parlamentare motivata con il timore che la promozione della partecipazione possa in qualche modo interferire con la contrattazione collettiva e ridurne gli spazi.
Resta da vedere se e in che misura questo atteggiamento espresso durante la discussione della legge si tradurrà nelle vicende applicative, che si attueranno prevalentemente in sede aziendale.
Una eventuale resistenza di Cgil e Uil in quella sede potrebbe ostacolare gli esperimenti di partecipazione, in varia misura a seconda dei casi, o aprendo la strada ad accordi sindacali separati ovvero favorendo l’affermarsi di prassi partecipative unilaterali da parte del management aziendale. In entrambi i casi sarebbe una evoluzione non certo utile a promuovere relazioni partecipative.
Ma nel contempo avvertono che tali potenzialità dipendono non tanto dal riconoscimento legislativo o contrattuale dell’istituto, quanto dalla sua gestione nel contesto specifico delle relazioni fra le parti.
Per concludere si può dire che la pluralità delle opzioni partecipative presenti nella legge in esame ha il vantaggio rispetto alle normative precedenti di presentare offerte diverse che possono intercettare le varie preferenze delle imprese e favorire scelte anche limitate, ma aderenti ai diversi contesti aziendali e sociali
Per spingere imprese e sindacati ad adottare i vari tipi partecipativi, non basteranno gli incentivi, peraltro ridotti, previsti dalla legge.
Molto dipenderà dall’evoluzione generale delle relazioni industriali e dell’economia, ora più che mai incerte.
Per orientare le scelte a favore di questa offerta legislativa sarà soprattutto decisiva la convinzione di tutti gli attori, sindacati, imprese e istituzioni, che nell’attuale situazione della economia e della società, le impostazioni partecipative delle relazioni industriali sono più utili di quelli conflittuali per affrontare le sfide delle transizioni in atto e per favorire uno sviluppo socialmente e ambientalmente sostenibile.

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